La parabola di Scott

Pubblicato il: 21 Febbraio 2022

Chiunque abbia amato il piano jazz non può prescindere dal cosiddetto golden trio di Bill Evans, la cui ritmica era completata da Paul Motian e Scott LaFaro, un vero iconoclasta dello strumento scomparso purtroppo a soli 25 anni a causa di un incidente stradale.

Una tragedia che non solo recise quella che sarebbe diventata una carriera sensazionale, ma ebbe anche profonde ripercussioni sul morale dello stesso Evans, che dopo le fantastiche sessions al Village Vanguard di New York del giugno 1961, accusò una lunga pausa prima della necessità di riformare un nuovo trio. La parabola di Scott viene riassunta con dovizia di particolari da Vincenzo Staiano in “Solid: quel diavolo di Scott LaFaro” pubblicato da qualche settimana per Arcana Edizioni.”L’idea del libro-esordisce Staiano- è legata all’omaggio a Scott LaFaro organizzato dal festival Rumori Mediterranei, in Calabria, nel 2011. All’epoca la sorella Helene LaFaro Fernandez aveva da poco pubblicato il volume “Jade Visions. The life and music of Scott LaFaro”, la biografia del fratello e della sua famiglia. Avevo il compito di gestire la sua collaborazione all’iniziativa e fu così che tra di noi si sviluppò un rapporto epistolare che è durato poi molti anni ed è stato incentrato sulla passione di Scott per la letteratura e sulle origini dei Lofaro. Questo era, infatti, il cognome vero dei parenti calabresi (e non LaFaro, come invece riportato dalle cronache), regolarmente documentato nel passaporto del nonno Rocco Lofaro, che certificava che invece era Siderno il suo paese d’origine. Helene mi ha riferito anche che suo nonno Rocco parlava sempre del paese della Locride ai propri familiari".

Quale era? Sei riuscito a risalire all’atto di nascita e a chiarire i successivi spostamenti?
Malgrado lei non avesse dubbi su Siderno, l’atto di nascita certifica invece che era nato nel 1863 a Cannitello, allora un borgo marinaro di circa 3000 abitanti della provincia di Reggio Calabria. Ma ciò non cambia di molto l’essenza delle cose, poiché si può tranquillamente avallare la testimonianza dei suoi parenti più stretti. Affermano che giovanissimo si è trasferito a Siderno dove, a 19 anni, ha sposato una donna del luogo e nel 1893 è emigrato negli USA insieme a lei. Questa scoperta, anche se certifica definitivamente l’origine italiana di Scott ha, comunque, un’importanza relativa. In effetti, è il soggiorno di nonno Rocco a Siderno a risultare interessante, poiché riesce a dare una chiave di lettura del rapporto dei Lofaro/LaFaro con la musica. A questo proposito è opportuno ricordare, che anche Joe, il papà di Scott, era un grande musicista. A tre anni sapeva suonare il mandolino e a sei il violino, a 18 si è diplomato in violino al college di Ithaca e subito dopo si è trasferito a New York dove, negli anni venti, ha suonato con i più celebri jazzisti dell’epoca.

Come e dove nacque questa passione per la musica da parte di Joseph LaFaro?
Helene mi ha raccontato che suo nonno Rocco era un grande appassionato di lirica, che ascoltava spesso, e aveva trasmesso questo suo interesse ai suoi familiari. Non esistendo ancora i grammofoni, è lecito supporre che nonno Rocco sia entrato in contatto con il “Bel canto”, grazie all’attività bandistica esistente a Siderno nella seconda metà del XIX secolo, prima che emigrasse negli Stati Uniti con la moglie alla fine dell’800. Sono queste, quindi, a mio parere, le radici musicali dei LaFaro (in particolare di Joe che ha influenzato il figlio) e va cercata qui l’origine della struttura melodico-contrappuntistica che Scott ha introdotto nel modo di suonare il contrabbasso, rivoluzionandolo. Questo tratto distintivo della sua “italianità” è stato sottolineato anche dall’autorevole critico canadese Gene Lees, in un lungo e approfondito articolo dedicato al giovane contrabbassista.

Arrivando in fondo al tuo lavoro cosa hai scoperto del musicistapersonaggio che non sapevi o non ti immaginavi?
Che Scott non era un semplice sideman, come tanti potrebbero pensare, ma aveva carisma e la stoffa del leader, anche se era molto giovane. Nelle formazioni che lo hanno visto protagonista ha avuto spesso un ruolo di primo piano e ho cercato di dimostrarlo nel mio lavoro, riportando giudizi di suoi amici e compagni di lavoro autorevoli come Steve Kuhn, Paul Motian, Gary Peacock e Andy LaVerne, solo per citarne alcuni. Una ulteriore conferma a questa convinzione è arrivata a luglio (mentre era in corso la pubblicazione del mio libro), da parte di un critico che non ha esitato a definire Scott “il timoniere” del trio di Bill Evans e di altre formazioni.

Breve ma fulminante parabola la sua, esistono delle registrazioni live o in studio rimaste nel cassetto?
Da quanto risulta dalle informazioni che ho raccolto nel corso della mia ricerca, resta ancora non pubblicata la registrazione di un suo concerto con Paul Bley in un locale della West Coast nel 1958, mentre è motivo di grande rammarico la mancata collaborazione con Miles Davis. Lo avrebbe voluto a tutti i costi nella sua formazione che non era “solid” senza di Scott, come Davis stesso dichiarò in un biglietto di saluti indirizzato al giovane contrabbassista. Ma la grande “incompiuta”, comunque, è il progetto discografico di un quartetto composto da Miles Davis, Bill Evans, Scott LaFaro e Paul Motian. E’ rimasto in un cassetto a causa della scomparsa di Scott.

Molti fra i critici e il pubblico sono rimasti legati a quel jazz di fine anni '50 di cui La Faro è stato un apollineo protagonista, secondo te per quale motivo?
Io racconto quello dell’area losangelina in modo inedito per l’Italia, come è stato evidenziato da alcuni autorevoli recensori del mio libro. Scott è una figura di primo piano di quella grande stagione. Una cosa che traspare, però, dai giudizi di alcuni è l’impossibilità di etichettarlo perché, a loro parere, non era né “bopper”, né “hard-bopper”, nè “New Thing”. La sua “inclinazione verso la musica classica” lo ha reso unico. Infatti, un critico, di recente, ha addirittura affermato che era “più” di un contrabbassista di jazz e ha ricordato il suo ruolo in “Jazz Abstractions” di John Lewis, Gunther Schuller e Jim Hall, uno dei grandi esempi di jazz associato alla musica classica, la cosiddetta “Third Stream”.

A proposito di quelle collaborazioni che Scott si è meritato con il privilegio di averle comunque vissute, cosa pensi che possa legare due figure così diverse come Bill Evans e Ornette Coleman nel suo tramite?
Questo forse è l’aspetto più intrigante e misterioso della carriera di Scott. Nell’unica intervista importante rilasciata nella sua vita, Scott ha dichiarato che non avrebbe mai suonato con Ornette Coleman, perché faceva cose che a lui non interessavano. Stima e rispetto per il musicista texano, ma nessuna possibilità di condividere i suoi progetti, anche se a Los Angeles avevano suonato insieme. Nell’intervista Scott mette addirittura in dubbio il fatto di essere un musicista di jazz, idea che condivide con Bill Evans. Siamo nel mese di agosto del 1960 e l’intervistatore è Martin Williams, nume tutelare di Coleman e direttore di Jazz Review, la rivista più prestigiosa di questo periodo. C’è molto candore (e una punta di ingenuità, secondo me) in questa dichiarazione di Scott. In “Solid” io propendo per l’ipotesi che abbia sposato una riserva di Bill Evans nei confronti Coleman e spiego il perché. Questa vicenda editoriale, però, non impedisce a Scott di unirsi al quartetto di Coleman, un paio di settimane dopo (prendendo il posto niente meno che di Charlie Haden), di fare un tour con lui e, nello spazio di un mese, registrare due album capolavori come “Free Jazz” e “Ornette!”.

Se pure quel jazz di fine anni ‘50 ha costituito una pietra miliare nella storia del genere, è anche vero che il contesto socio-culturale da cui è scaturito oggi è irripetibile: che direzione sta prendendo oggi il jazz cui invece qualcuno affibbia uno stato agonizzante?
Io non credo affatto che il jazz stia morendo. Innanzitutto penso sia sbagliato riferirsi al termine jazz così come ad altre parole che identifichino generi musicali in maniera assolutista, perché i confini oramai sono veramente assai labili e ogni genere vive e prospera anche grazie agli input che riceve dall’esterno. Certo, poi bisogna intendersi sul significato che noi attribuiamo alla parola. Se ci si riferisce a quel tipo di mood suonato negli anni di Evans e La Faro certamente quel jazz non è più in grado di dire qualcosa di nuovo, anche se ancora oggi viene suonato e apprezzato da molti appassionati. Ad ogni modo ci sono molte personalità interessanti ed oggi le novità più originali vengono prodotte nel nord e nell’est europeo e in altri paesi che hanno poco a che vedere con la natìa musica americana.

Nel libro vengono anche analizzati i vari elementi culturali che La Faro assorbì nel suo stile dirompente e fuori da ogni schema (fino allora) conosciuto, citando fonti e testimonianze che lasciano aperta la porta al lettore per la propria chiave di interpretazione, rinnovando invece la voglia di ascoltare le pochissime per quanto irrinunciabili testimonianze ancora reperibili in supporto discografico. A tal proposito il poderoso contrabbassista Miroslav Vitous, che nel decennio successivo a quelle sessions sarà con Joe Zawinul e Wayne Shorter (due fuoriusciti dalle session di “In A Silent Way”, del divino Miles), negli imprescindibili Weather Report, considera “Sunday at the Village Vanguard” l’album che gli ha cambiato la vita: Quando l’ho sentito è stata la mia più grande ispirazione, LaFaro un’ icona di straordinaria portata. Il suo talento era fenomenale. Nei primi tempi del jazz il contrabbasso ha sostituito la tuba, e c’è voluto un pò prima che lo strumento prendesse un ruolo importante. Ma altrettanto importante era la comunicazione interna al gruppo: loro avevano una vera conversazione, il cosiddetto interplay. Neanche Miles ai tempi lo faceva. Sono stati i primi, grazie a LaFaro, una personalità gigantesca che considero al pari di quella evansiana.

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