Otto anni trascorsi assieme, una porzione di carriera importante ricca di soddisfazioni umane e discografiche; un lasso di tempo che è servito al batterista francese, nato a Saint-Maur-des-Fossés, nella regione dell’Île-de-France, a ritagliarsi un’identità stigmatizzante all’interno della ECM Records di Manfred Eicher, grazie alla lentezza sana e disarmante della continua evoluzione del suo genio creativo. La trasversale "erosione formativa" quasi quarantennale di Manu Katché gli ha fatto conoscere le diverse impronte d’animo e di linguaggio che la musica dona a chi ha i volumi di coscienza adatti ad osare e spingersi nell’irrefrenabile ricerca del bello: l’esperienza del rock con Peter Gabriel, Sting, i Dire Straits; il pop di levatura internazionale e il condizionamento del jazz di Jan Garbarek, che gli ha spalancato le porte della casa discografica di Monaco di Baviera. In Touchstone per Manu il batterista francese ha sintetizzato gli otto lustri di lavoro di scrittura compositiva attraverso undici brani, con la volontà di far comprendere il suo percorso prezioso vestendo i panni del moderatore.Punto di vista che, curiosamente, si riverbera anche sugli aspetti tecnici della registrazione: pur essendo l’artista principale, Manu Katché e la sua batteria sono stranamente "indietro" nel mix. In generale, tutto il set percussivo ha un suono poco importante e il tecnico ha privilegiato gli strumenti solisti come il piano, il sax e l’organo. Senza dubbio è un album con dei connotati sonori particolari e secondo noi non sempre positivi. Gli strumenti sembrano poco amalgamati tra loro. Sax e piano, ad esempio, sono agli antipodi sia dal punto di vista timbrico che "spaziale": il primo fin troppo metallico, frizzante e vicino mentre il secondo, di riflesso, troppo morbido e lontano. Stiamo ovviamente parlando di scelte tutto sommato opinabili e non di veri e propri difetti tecnici; non sono presenti distorsioni evidenti e anche la compressione generale non è esagerata. Possiamo considerare l’album diviso in tre ipotetiche parti: la prima con il pianista Marcin Wasilewski, la seconda con il chitarrista Jacob Young e la terza con l’organista Jim Watson. Molto probabilmente si è trattato di tre momenti diversi di ripresa e secondo noi la più riuscita tecnicamente è l’ultima. La seconda traccia, Number One, è invece a nostro giudizio quella di minor qualità: è qui che si percepisce maggiormente la mancata omogeneità degli strumenti. Al contrario, Bliss è la traccia migliore. Il ritmo un po’ ipnotico della batteria, unito all’organo, riesce a creare un tappeto sonoro convincente. Ovviamente stiamo parlando di un lavoro i cui canoni si ispirano all’eccellenza, cifra stabile a cui ci ha abituato ECM; nel complesso, perciò, siamo di fronte a un’illuminante esperienza d’ascolto, dalle melodie cantabili e con cerebrali costruzioni ritmiche mai scontate ma attente a far risaltare la chiave semantica del momento vissuto. Le formazioni con le quali Katchéha realizzato questi quattro grandi album, Neighbourhood (2005), Playground (2007), Third Round (2010) e Manu Katché (2012), sono un unico meccanismo che nel tempo ha saputo sincronizzare, pur nelle loro diversità, emozioni, vite e messaggi spirituali di purezza e armonia.FORMAZIONEManu Katche (drums)Mathias Eick, Tomasz Stanko (trumpet)Nils Petter Molvær (trumpet, loops)Jan Garbarek, Trygve Seim (tenor saxophone)Tore Brunborg (saxophones)Jacob Young (guitars)Marcin Wasilewski, Jason Rebello (piano)Jim Watson (piano, Hammond B3 organ)Slawomir Kurkiewicz (double bass)Pino Paladino (bass).